E’ quasi Natale, anche se in questi giorni non si respira aria di festività. D’altra parte, in Swaziland dicembre significa piena estate, giornate lunghe e luminose, il freddo è un compagno inesistente. Il caldo si mischiava perfettamente alla polvere rossa dello sterrato che entrava in macchina, mentre eravamo in viaggio verso la piccola comunità di Ntandweni nella regione di Lubombo, cuore dell’industria della canna da zucchero del piccolo stato africano. Ad accogliermi, un nutrito gruppo di donne: meravigliose, fiere, con uno sguardo carico di dignità, nonostante la fatica e la privazione dovute alle dure condizioni di vita, la mancanza d’acqua e il lavoro estenuante nelle piantagioni. I colori accesi dei loro vestiti amplificavano l’allegria del momento. I visitatori, d’altronde, sono molto rari da queste parti.
Un abbraccio iniziale con ognuna di loro, occhiate intense, poi l’invito a sedermi sotto un ampio marula, un albero tipico dell’Africa meridionale, in una distesa di tappeti blu e gialli. All’ ombra assieme alle donne sedute in cerchio, lo scambio, sempre tradotto in lingua locale da Nosipo, una collega del Cospe, e accompagnato da un complesso gioco di sguardi, lentamente fa emergere le difficoltà del villaggio. Scopo dell’incontro è approfondire le problematiche ambientali della comunità, capire quanta acqua hanno a disposizione e a che distanza, e come la comunità si organizza per far fronte alla siccità degli ultimi anni, di gravità sempre crescente. El Nino, un fenomeno climatico ciclico che ha portato anche in Africa australe lunghi periodi di assenza di piogge, ha reso essenziale vivere sempre più vicino a corsi d’acqua o ai pozzi, senza sottovalutare le rare e catastrofiche piogge torrenziali che di tanto in tanto interessano il paese. Raccogliere accuratamente informazioni su questi fenomeni avrebbe quindi potuto aiutare a una migliore pianificazione della resilienza idrica di queste comunità.
Mkuze, la donna forse più anziana del gruppo, prende la parola per prima. ”Il pozzo più vicino è a trentacinque minuti a piedi dal centro del villaggio. Andare a prendere l’acqua è un’attività quotidiana per tutte le famiglie. Ci siamo organizzate in gruppi di cinque-sei donne per andare ogni giorno, a turno, a riempire i recipienti e portarli a casa. Siamo fortunate: mezz’ora a piedi è un progresso, rispetto al passato”. Rimango in silenzio, esterrefatta: mezz’ora di cammino per rifornirsi d’acqua per bere, cucinare, per l’allevamento delle caprette, era considerato un “progresso” “Prima ci mettevamo quasi due ore”, aggiunge Mkuze.
Nosipo, che ha notato il mio stupore, sottolinea un fatto preciso. “Sono sempre le donne che pensano all’acqua e a dissetare tutta la comunità, ma anche a lavorare la terra e ad accudire i bambini. Gli uomini in questo viaggio per l’acqua non centrano nulla”.
Dopo un’ora di racconti, Mumbala, una delle giovani nipoti di Mkuze, m’invita a casa loro. Mi mostra cos’hanno messo a cuocere, e una serie di tessuti, realizzati da lei e dalle sue sorelle, per sdraiarsi, dormire o mangiare, raccontando i significati delle tante decorazioni variopinte.
Nella casa non c’è un bagno, né all’interno né fuori. Era esattamente ciò che vogliono mostrarmi. “E’ tutto qua”, ripete in maniera quasi ipnotica Mumbala. Tutto qua, niente acqua corrente, niente latrina. La nonna Mkuze si schiarisce la voce, spostando alcune taniche vuote. “Acqua per Mumbala significa paura. Non ha aperto bocca per quasi un anno. Adesso ha imparato a colorare i tessuti, ride e ci siamo lasciate tutto alle spalle, ma la paura che possa succedere ancora è sempre dentro di noi”. Gli occhi della nonna domandano gravità, con la voce a tratti rotta. La traduttrice è un po’ imbarazzata e guarda per terra. Chiedo un chiarimento, ho intuito un orrore passato dietro il viso di Mumbala. La nonna prende coraggio, anticipando la mia domanda. “Le latrine di Ntandewi sono state costruite lontano dalle case, bisogno camminare parecchio per raggiungerle così come per andare al pozzo. Mumbala, che all’epoca aveva diciannove anni, un sera portava a casa un tanica d’acqua per la sua famiglia. Era sola, quasi buio. Presso le latrine, sbucò dal nulla una figura. Mumbala fu aggredita e subì violenza. Uno stupro. Rimase a terra a poca distanza, nel fango delle latrine, fino al sorgere del sole, quando vennero a cercarla con il favore della luce. Per un anno, da quella sera, Mumbala non ha più avuto la forza di parlare per la vergogna, per il disprezzo, per la rabbia”.
Il racconto lascia lacrime secche sugli occhi di tutti , che non si aspettavano un resoconto così diretto e pesante. Mumbala ha ascoltato tutto, rannicchiata, con le mani giunte sul grembo, in segno di protezione. Col suo incubo vivo negli occhi. “Avevo bisogno di andare in bagno, non mi sentivo tanto bene, avevo forti crampi per il ciclo. Non volevo andare nel bosco”, mi dice la ragazza mentre ascolto in silenzio. “Oggi da sola non vado più da nessuna parte, soprattutto al bagno.
Storie come quella di Mumbala sono sempre più frequenti nei paesi dove l’accesso ai servizi igienico -sanitari adeguati, oltre che all’acqua, è spesso un lusso quasi mai un diritto. Secondo un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, di Unicef e Human Rights Watch, circa il 60% della popolazione mondiale – 4,5 miliardi di persone – non ha bagno in casa ne una latrina sicura, appartata, igienica, mentre 862 milioni di persone defecano all’aperto, contribuendo alla contaminazione dell’ambiente e delle acque e incrementando il numero delle malattie batteriche. L’acqua è fondamentale per il benessere non solo per usi potabili. La sottrazione di acqua alle popolazioni non è un rischio unicamente per la sicurezza alimentare ma anche per la salute e il benessere psico-fisico. Le donne e le ragazze, poi, hanno particolari esigenze biologiche, come la gestione del periodo del ciclo mestruale, l’igiene durante il parto e per le cure post-parto, che richiedono acqua pulita, spazi preposti sicuri e servizi igienici disponibili e sanitizzati. (Segue)
* Brano estratto dal libro “Water grabbing – Le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo” di Emanuele Bompan, giornalista ambientale e geografo e Marirosa Iannelli, specializzata in cooperazione internazionale e water management (http://www.watergrabbing.it).