A Mega, in Etiopia meridionale, l’uomo aveva sulla fronte un fallo in alluminio, il qallacha. Mi sputò in testa. «Io ricevo», dissi secondo la formula dei nomadi Borana. Accanto a me c’era un pastore. «Io ricevo la pioggia, l’erba, le vacche», disse lui riverente per la benedizione. Poi c’incamminammo verso il pozzo di Melbana. Il territorio era desolato, i cespugli sparsi, le foglie rinsecchite, come dev’essere nella stagione secca d’agosto. All’improvviso la terra cantò, per mezzo di una sonorità umana vibrante.
Fermammo la mandria sotto un’acacia, per attendere il nostro turno all’acqua. Così mi avviai verso una scarpata tagliata da una rampa in discesa. Incontrai una teoria di ragazzi che trasportavano verso l’alto cassette di letame, in contromarcia alle vacche che lo depositavano nella polvere resa finissima dal calpestio millenario. In una posizione strategica tra la piana e la rampa, un uomo con la mano alla bocca dava origine al ritmo del canto. Alla base della rampa, allineate con tradizionale ordine rigoroso, le vacche si abbeveravano in truogoli di legno e fango. L’acqua, così come il canto, pareva sgorgare dal sottosuolo in fiotti ritmici.
Mi feci largo tra il bestiame, i pastori e i costruttori delle piramidi di letame. Sotto una sorta di grotta c’era un bacino pieno d’acqua. Due uomini, completamente fradici, spostavano tonnellate d’acqua con secchi di pelle di giraffa, dal bacino all’abbeveratoio. Cantavano. Alle loro spalle, l’acqua saliva in fiotti continui. Mi avvicinai. In cima a un trabiccolo di pali di legno, due ragazzi travasavano secchi d’acqua nel bacino, in una doccia continua. Cantavano. Sotto di loro, da un budello, un egual numero di secchi saliva in superficie a ritmo. Eravamo davanti a forza, bellezza ed efficienza: i pozzi cantanti dei Borana.
Nel territorio piove a sufficienza per l’erba, ma l’acqua per il bestiame è profonda. Così, con complessi diritti di scavo e sfruttamento, nei secoli i pastori hanno traforato la terra verso la falda acquifera. I budelli sprofondano anche per trenta metri. Melbana è un “otto gradini”. Lungo il budello, le impalcature sorreggono otto coppie di persone (quasi sempre maschi, tutti volontari designati dai vari lignaggi) che “pescano” con i secchi l’acqua della sorgente profonda e la fanno risalire con una catena umana fino alle vacche. Quando discesi verso il fondo il buio era assoluto, e fui preso dal panico. Mi condussero prendendomi i piedi tra le mani. Faceva un freddo assurdo, al punto che ogni tanto gli elevatori umani dovevano darsi i turni per asciugarsi. Su sette ore di lavoro, le pause superavano l’ora. La catena è in grado di far arrivare al bestiame tra gli 80 e i 150 litri d’acqua al minuto, con punte di 350 se necessario. Ecco perché si canta.
L’uomo sulla scarpata è il capo coro. Da esperto, valuta il numero di animali che arrivano al pozzo e il flusso d’acqua necessario. Imponendo al proprio canto un ritmo definito, ma variabile, il capo coro consente all’acqua di arrivare negli abbeveratoi on demand (a richiesta dell’utente finale, la vacca) e just in time (con la tempistica ottimale per non sprecare acqua nell’immagazzinamento). A Melbana mi sembrò di essere in una fabbrica giapponese ultramoderna. Molto più bella, però.
In controtendenza, i Tuareg del Sahara dicono: «Anche se le vallate traboccano d’acqua, la stabilità è il pozzo». Si tratta di tattica evasiva. Il Sahara non è un deserto chimico, ma idraulico: è più l’acqua che ne esce per evaporazione di quella che entra con la pioggia. Infatti si dice anche: «Un uomo scava un pozzo e trova l’acqua. Non ne ha abbastanza, continua a scavare e trova solo cenere». «Chiedi pure il latte alla tua cammella, un figlio a tua moglie, ma l’acqua, quella chiedila a Dio», si salmodia nelle carovane, a più di cento passi al minuto. È una sorta di religione della sete, oltre che una continua norma di vita.
Nel Sahara, i cammellieri (e chi, come me, li accompagna sulle piste) si lavano con la sabbia, anche per le abluzioni della preghiera: hanno ricevuto una speciale dispensa da Maometto. Di conseguenza, per non sbagliarsi, i Tuareg sono accurati nel denominare le acque di superficie, le poche che, stagionali o perenni, appaiano nel loro ambiente. Il termine ağuelman indica un bacino d’acqua naturale, permanente o temporaneo, di qualsiasi dimensione: lago, stagno o pozzanghera. Però tesâhaq è proprio solo una pozzanghera, mentre ağuelhok è una piccola depressione nel suolo, con acqua pluviale temporanea. Una cavità naturale a serbatoio, di qualsiasi dimensione, si chiama téwegh, mentre la parola tesaq (assai simile a “pozzanghera”) indica un grande bacino naturale d’acqua. Una cavità che diventi bacino d’acqua per molti mesi è detta anâhgh. Una cavità di raccolta nella roccia, invece, si chiama tawârdé. La più infima unità di raccolta idrica, una piccola cavità naturale a forma di catino, in grado di conservare l’acqua piovana anche solo per pochi giorni, pure essa ha un nome: tağidda1. Dopo c’è solo più l’otre, la ghirba che, in arabo, significa “la pelle”, da cui il detto “lasciarci la ghirba”: morire.
Quando dico ai pastori turkana: «ACQUA = H2O», cercando di spiegarne la chimica e la fisica, il loro sorriso di compatimento riesce a farmi comprendere come l’equazione sia scorretta. “Accadueò” è puro sapere scientifico e coglie solo una parte della conoscenza che l’uomo ha di “acqua”: in questa parola, insieme alle molecole, c’è anche l’arcobaleno2.
1-Calegari, G. e Soldini, G.: “Punti d’acqua e invenzione del territorio” in Calegari G. (a cura di), 1993: La religione della sete. L’uomo e l’acqua nel Sahara, Centro Studi Archeologia Africana, Milano)
2- Salza, A., 2006: “Accadueò”, in H2O: nuovi scenari per la sopravvivenza, a cura di Marcatti, R., cooperativa Universitaria Studio e Lavoro, Milano)
*Alberto Salza – Analista del terreno umano, ha coordinato il Laboratorio di Ecologia Umana dell’Università di Torino. Dal 1968 svolge ricerca sul campo in Africa. Collabora dal 1998 agli aiuti umanitari (eco- sviluppo, prevenzione dei conflitti, diritti umani e crimini internazionali). Collabora con numerose riviste, tra cui Le Scienze e National Geographic ed è autore di vari libri.