«Hai sperimentato la fame feroce, il caldo che lascia senza fiato, la sete che brucia?»
«Come dice Vittorio Gassman in un film: modestamente, sì»1
Ho sperimentato la sete. Per trentasei ore ho camminato nel semideserto che separa la Suguta Valley, uno dei luoghi più caldi e desolati dell’Africa, dal lago Turkana, in Kenya. Temperature oltre i 40 °C e vento secco, molto forte. Deliberatamente, sono partito da solo e non ho portato con me acqua da bere. Non lo farò mai più. Dopo la prima giornata di cammino, mentre mi arrampicavo tra la lava nera e rossa, ho cominciato ad avvertire microcrampi a ogni muscolo: mancava l’acqua per i contatti elettrochimici. Poi le giunture si sono messe a dolere: si sono bevute il liquido sinoviale, Così ho cominciato a scricchiolare come uno scheletro. La pelle si è fatta grigiastra. L’orizzonte ha iniziato a scapparmi davanti agli occhi. Ho visto più volte la Nostra Signora dell’Acqua Santa appollaiata sui cespugli spinosi. Ero tranquillo: conoscevo territorio e distanze; avevo davanti a me, in lontananza, un lago enorme. Le sue acque sanno di lisciva, ma non volevo pensarci. Buona la lisciva. Vorrei poter dire che, a quel punto, sono morto, ma non mi credereste.
L’uomo non può vivere con poca acqua, figuratevi senza. L’acqua presenta numerose anomalie chimico-fisiche: ha un massimo di densità intorno ai 4 °C, punti di fusione ed ebollizione elevati, alta tensione superficiale, elevato calore specifico. La natura dipolare delle molecole e la presenza di legami a idrogeno fanno sì che l’acqua possieda un’elevatissima costante dielettrica e, di conseguenza, sia dotata di un enorme potere solvente per i composti ionici. L’acqua è un solvente biologico universale.
Nel deserto, dove l’acqua scarseggia almeno in superficie, l’uomo è nei guai. Noi siamo semplici scimmie nude, esposte alle radiazioni solari; inoltre siamo animali omeotermi, in quanto dobbiamo mantenere costante la nostra temperatura interna, intorno ai 37 °C, pena il febbrone. Non siamo in grado di disperdere calore ansimando, come fa il cane. E così ci tocca sudare, come da destino biblico. In questo, l’uomo è straordinariamente efficiente: riusciamo a perdere oltre un litro di sudore all’ora; se siamo acclimatati arriviamo anche a 4 litri l’ora2. Questo è un bene, poiché l’evaporazione è il sistema più rapido per abbassare la temperatura. Ma è anche male, se non c’è acqua da bere per reintegrare i fluidi corporei. Stranamente, le donne, anche se acclimatate, hanno una capacità di sudare inferiore di quasi il 50% rispetto agli uomini; le donne sono meno adatte a vivere nel deserto3. Inoltre uomini e donne, alla pari, non sono capaci di bere abbastanza, anche quando ce n’è.
L’esercito israeliano ha condotto un esperimento sottoponendo quattro gruppi di controllo a una dura marcia nel deserto. Si poteva bere a volontà uno solo dei seguenti liquidi: acqua naturale; acqua insaporita alla frutta (ininfluente sulla salinità); birra; latte4. Il gruppo del latte fu preda della dissenteria, peggiorando drammaticamente il proprio bilancio idrico. La birra riuscì a dissetare perfettamente il gruppo di riferimento, ma alla fine della marcia i soldati non parevano in grado di espletare correttamente alcuna attività militare. Ma va? Il gruppo che bevette acqua naturale a volontà, alla fine della marcia non risultò reidratato del tutto. Andò decisamente meglio il gruppo che aveva a disposizione l’acqua insaporita: tutti i membri massimizzarono l’assimilazione di fluidi nel tempo e mantennero più a lungo l’equilibrio idrico, raggiungendo la massima efficienza possibile nelle circostanze. A quanto pare è una questione di palatabilità: l’essere umano sotto stress idrico non sarebbe in grado di bere abbastanza acqua naturale in un tempo breve, così da reidratarsi rapidamente. A un certo punto viene la nausea e non si riesce più a ingurgitare.
Si deve imparare a bere. Durante una delle prime marce nello spaventoso entroterra del lago Turkana, mi venne sete. Anche gli asini avevano sete. Quando lo feci presente agli asinai, Lepukei, pastore nomade turkana, mi rispose: «Se io devo scavarmi l’acqua dal letto asciutto del fiume secco, lo possono fare anche gli asini». Lo stavano facendo per davvero, con gli zoccoli. Niente acqua, però.
«Mi devo mettere a scavare anch’io?», chiesi a bocca secca.
«Non essere ridicolo: non sei mica più bravo degli asini», disse Lepukei.
«Dovrei bere, però». Quando si ha sete il tono si fa querulo, non so perché.
«Laggiù ci dovrebbe essere una pozzetta d’acqua», disse Lepukei indicando un punto indistinto all’orizzonte. «Trovala e bevi».
Ci misi mezz’ora, ma alla fine arrivai davanti a una piccola buca tra i sassi, con qualche ciuffo d’erba a rompere la desolazione. Guardai dentro e mi trovai davanti a un concentrato di muffa verdastra, semiliquida. Estrassi il mio bicchiere di latta, con manico (un must, da quelle parti), e feci per tirar su la poltiglia.
Si materializzò un pastorello. Succede sempre: prima non si vede nessuno per miglia e poi, come i cobra sputanti che infestano la zona, salta fuori un bambino direttamente dai blocchi di lava. Mi strappò il bicchiere di mano. Lo infilò nella pozzetta e gettò via tutta la muffa, acqua compresa. Poi mi sorrise. Rimasi allibito.
«Non sono in vena di scherzare, ho sete». Cercai di fare dei segni, per farmi capire.
Il ragazzino sorrise di più, anche se con tutti quei denti pareva impossibile. Riavvicinò il mio bicchiere alla pozza. E gettò via tutta l’acqua rimanente.
Gli descrissi per filo e per segno tutta la sua genealogia, partorita da quella gran puttana che doveva essere stata la trisavola. I Turkana, come tutti i pastori nomadi, sono molto sensibili alle relazioni di parentela, ma il ragazzino non capiva niente di quel che dicevo. Mi guardai attorno. Non si vedeva nessuno. Avrei potuto strangolarlo impunemente.
Mentre mi accingevo al delitto, la creatura operò nuovamente con il mio bicchiere, gettando altra acqua a sfrigolare di calefazione sulla lava. Poi si accoccolò sui talloni, ad aspettare.
Lo avvicinai di spalle, perché non si spaventasse. Non volevo che soffrisse. Quando sporsi la testa sopra di lui, le mani protese, vidi la buchetta. Dal fondo di sabbia gorgogliava un rivolo d’acqua. Perfettamente pulita. Con un gesto di estrema delicatezza, per non sollevare fanghiglia, il bambino trasse con il bicchiere un quantitativo di acqua limpida. Me la porse. Lo feci dissetare per primo. Ripeté il gesto e mi diede da bere. Non scorderò mai quel gesto della mano. L’ho ripetuto per anni e anni, con lo stesso colpo di polso rasente il fondo, per non sporcare l’acqua.
Ho sempre bevuto l’acqua dove e come fosse, senza ammalarmi. Basta bere poco e pulire la pozza. Una volta, mia moglie, mentre immergevo la faccia in una pozzanghera, disse dolcemente: «Almeno leva la carcassa di quell’animale morto». Così tolsi dall’acqua l’ala di un fenicottero rosa e le feci fare un ultimo volo, prima di bere5.
1- Roberto Bolano risponde a Monica Maristan nell’intervista per l’edizione messicana di Playboy del luglio 2003 che uscì pochi giorni dopo la morte dello scrittore cileno nel 15 luglio 2003; Bolaño fa riferimento a Il sorpasso di Dino Risi, 1962)
2- Louw, G.N. e Seely, M., 1982: Ecology of Desert Organisms, Longman, Londra
3– Salza, A., “Deserto a piccole dosi”, Rinascita, n° 6, 17 febbraio 1991
4- l’esperimento è descritto in Louw, G.N. e Seely, M., 1982, op. cit.
5- episodio citato in Salza, A., 2009: Niente. Antropologia della povertà estrema, Sperling & Kupfer, Milano
*Alberto Salza – Analista del terreno umano, ha coordinato il Laboratorio di Ecologia Umana dell’Università di Torino. Dal 1968 svolge ricerca sul campo in Africa. Collabora dal 1998 agli aiuti umanitari (eco- sviluppo, prevenzione dei conflitti, diritti umani e crimini internazionali). Collabora con numerose riviste, tra cui Le Scienze e National Geographic ed è autore di vari libri.